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Ainu no Kenkyuū.
Alcuni esempi di “iyohaichishi”
I seguenti estratti fanno parte del testo “Ainu no Kenkyū”, pubblicato nel 1925. Si tratta di un volume dedicato in parte allo studio della lingua Ainu, e in parte alla divulgazione della tradizione orale.
La traduzione seguente è delle pagine 136 e 148, in cui viene illustrata una tipologia di lirica popolare, la iyohaichishi. Si tratta in tutto di quattro canzoni, complete di spiegazione introduttiva. E’ notevole la presenza di onomatopee e figure retoriche. Non esiste una metrica fissa, giacché gli Ainu non possedevano un metodo di scrittura, ma è interessante notare come ogni strofa (in riferimento a queste specifiche iyohaichishi) generalmente sia composta di 4, 5, o 6 sillabe. E’ probabile che, come i loro vicini Wajin, anche gli Ainu tenessero molto conto dell’eufonia quando producevano poemi o canzoni. A causa della già citata mancanza di fonti scritte precedenti, non possiamo disgraziatamente sapere con certezza né quando, né da chi, siano state composte.
“Simile alle cosiddette canzoni sugli affetti, le yaisaman; esiste anche qualcosa chiamato ‘piangere in adorazione’, le iyohaichishi. Poiché principalmente esprimono le passioni amorose tra uomini e donne, stando a quanto dice l’anziana 1: a causa di [questa passione], si perde l’appetito, non ci si riesce a concentrare sul lavoro, e tuttavia i pensieri dolorosi non si riescono a comunicare agli altri per la vergogna; ci si reca spesso nei campi aperti e lì si getta via la zappa, anche a costo di non aver più nulla di che mangiare; e, prendendo a pugni il tronco di un albero o altre cose, invece di cercare di asciugare le lacrime che scorrono copiose, si intona questa canzone.
Per utilizzare una parola antica in lingua Ainu, questo si chiama ‘yaikatekar’. Significa ‘innamorarsi’, o ancor più letteralmente, ‘perdere la testa per qualcuno’. Questo è ciò che significa questo tipo di canzone. Le fanciulle Ainu, sempre ovviamente intonando la melodia ‘hore-hore’, ogni tanto alternano questo ritornello con delle parole, e così si viene a creare un misto tra canto e iyohaichishi [melodia con testo improvvisato]. Nel frattempo, qualora si venisse a creare un capolavoro spontaneo, questo verrà riconosciuto dalla popolazione come una canzone stereotipo, che potrebbe cantare una qualunque ragazza di qualunque villaggio, quando pensa a qualcuno. Esistono degli esempi classici, ve ne mostreremo alcuni.”
Si tratta, dunque, di canzoni che alternano ritornelli privi di senso compiuto, più o meno standardizzati, a testi improvvisati, che riflettono le penose condizioni sentimentali delle giovani autrici. Non tutte però, come si vedrà nelle prossime pagine, hanno come argomento unico l’amore tra uomo e donna: anche l’affetto verso i famigliari e la terra nativa, funge da topos di queste composizioni.
Prima.
"Caro, mio caro,
sarebbe splendido
se tu fossi
ancora solo, ma appartieni già
ad una bellissima fanciulla.
Eppure per me è impossibile smettere di amarti,
e non c’è nulla da dire,
né, più nulla,
da fare.
Ma se tu, mio caro,
fossi ancora solo,
ti inviterei a stringermi le mani,
mi inviteresti a stringerti le mani,
e mi accompagneresti,
e sarei la tua compagna,
lì, come qui.
Ma tu sei già suo,
e non c’è nulla da dire,
né, più nulla,
da fare.”
Nota: in lingua Ainu, per riferirsi al proprio amato si utilizza la stessa parola che indica il fratello maggiore, yupo. Similmente, gli uomini si riferiscono alla loro amata con la parola che indica la sorella minore, così come accadeva nel giapponese antico 1
Seconda.
Così come
non ho genitori, fratelli,
né famigliari,
così, allo stesso modo,
come le foglie cadute dagli alberi,
come i fili d’erba caduti,
da terra germogliati ed ora su di essa sparsi,
proprio come loro,
ero io un’orfana
strappata ai miei genitori.
Quindi,
udì una voce distante,
che parlava di un Paese,
che parlava di un villaggio,
ed ivi io mi recai.
A quel tempo,
mi recai in quella casa,
ove si dice dimorassero
i miei genitori,
e seppure innumerevoli
fossero le abitazioni,
ed anche i loro abitanti,
fossero innumerevoli,
non ve n’era uno,
che assomigliasse a me.
E se dovessi ancora usare una metafora,
ero come un uccellino adottivo,
come un uccellino dal diverso piumaggio,
in mezzo a loro.
Tutto ciò che mi accompagna,
tutto ciò che mi segue,
non è che
una canzone,
che mi segue,
come una sorella minore.
Dovunque io vada,
lei mi segue,
e quando mi sentirò triste,
comincerò a cantarla dolcemente.
Anche se tu sei una Wajin,
io ti considero come una nipote,
perciò non piangere,
oh, bimba mia,
ed ascolta questa mia canzone!”
Questo iyohaichishi è particolarmente toccante. La sua tematica non è l’amore sensuale, ma la tristezza scaturita dal “sentirsi diversi ed unici al mondo”. L’ultima strofa serve a rendere alla perfezione l’idea di tolleranza e solidarietà che è insita in questo popolo. La giovane Ainu, pur sapendo che la neonata a cui sta cantando è di sangue Wajin, non nutre rancori verso di lei, e viceversa se ne prende cura come se fosse sua “nipote”. Finalmente si parla di Wajin e Ainu non in quanto avversari, ma in quanto popoli “vicini” che riescono a trovare conforto solo attraverso la fiducia e
l’affetto reciproci.
Terza
Vorrei essere il vento.
Vorrei essere un uccello.
Se lo fossi,
potrei oltrepassare due villaggi,
potrei oltrepassare tre villaggi,
via me ne andrei.
Posso dire di conoscere
solamente
una zia,
ma è come una madre per me,
e mi chiedo
cosa mai
ne è di lei.
E tu, vento schifoso,
se puoi custodire questo messaggio,
soffiando via,
recitalo così:
‘Vivo
in una terra aliena,
ma quant’è dignitosa
la mia vita.’
Questo tu riferirai, soffiando,
al mio piccolo villaggio,
alla dimora di mia zia,
porta questo mio messaggio!
E nuovamente,
portami le notizie
del mio villaggio,
e fammele ascoltare.”
Anche questa non ha come tema l’amore sensuale. Inoltre, il linguaggio utilizzato è piuttosto forte (in giapponese è stato tradotto usando il registro informale più basso, tipicamente mascolino).
Quarta.
Se potessi,
imparerei le creazioni degli dei,
il cuore creato dagli dei.
Eppure,
anche ad un semplice
essere umano,
dovrebbe poter essere accessibile,
la strada della passione,
la strada dell’amore.
Eppure,
non dovrebbe essere un problema,
neppure per me,
desiderare
e amare.
Ma se io amassi,
aah! Davvero,
resterei sola,
come foglia che cade da un albero,
come fili d’erba caduti.
Allo stesso modo,
io rimango sola.
Come se
solamente io,
avessi desiderato,
e amato.
Ma succede anche che,
canaglie dalla coscienza sviata,
e dal cuore corrotto,
ci ripetono
soltanto quelle parole,
proprio come
lance che ci trapassano,
lame che ci feriscono.
Perciò,
aah! Chissà,
che cosa starà facendo ora,
a che cosa starà pensando.
Io sono
andata
in una terra molto distante,
in un villaggio sconosciuto,
e svolgo un lavoro
a cui non sono abituata.
Da ora in avanti,
mi darò da fare,
voglio fare qualcosa
che renda orgogliosi
il padre mio morto,
la madre mia morta.
Il dio che dimora in me
è uno soltanto, però,
se tu sei giusto, oh Dio,
proteggimi,
per favore.
Se,
in qualche modo,
sarò in grado di
rendere onore
al mio defunto padre,
se sarò in grado di mangiare,
se sarò in grado di abbigliarmi,
se solo sarò in grado di farlo
decorosamente,
ti venererò
come mio dio protettore.
Pensa sempre
a proteggermi,
in qualunque modo possibile.”
I toni di questa poesia cambiano radicalmente dalla sfera del profano a quella del sacro. La giovane si strugge per un sentimento non ricambiato, ma ancor più forte della sua passione infelice, è il rimorso per essere stata allontanata dal suo villaggio. Questo culmina, alla fine, in una preghiera al suo dio “custode”, affinché la protegga sempre e la guidi sulla buona strada. Non ci è dato sapere se la “terra sconosciuta” sia un paese abitato da Wajin o semplicemente un’altra comunità (giacché non era raro che i giovani Ainu lasciassero le proprie famiglie per esplorare altri villaggi). Tuttavia, il verso “svolgo un lavoro a cui non sono abituata” potrebbe farci immaginare che a parlare sia una giovane Ainu deportata da un Wajin. Le strofe seguenti sono un’altra indicazione in merito.
Un’altra cosa interessante da notare, è il rapporto con la sfera del divino. Le divinità Ainu abitano monti, boschi e corsi d’acqua, tuttavia vivono e lavorano in un mondo “parallelo”, ma sono a tutti gli effetti identici ad un essere umano nell’aspetto e nel carattere. Gli Ainu trattano gli dei alla stregua degli uomini, e quindi si rivolgono ad essi come se fossero loro simili. Se però dovessero mancare loro di rispetto, gli dei non tarderanno a punirli. Inoltre, similmente alle itako del Nord-Ovest dello Honshū, esistono dei casi (nello specifico donne, ma in alcuni racconti si tramanda anche di uomini) di possessione “benefica” di uno spirito, il quale donerebbe al suo ospite il potere della divinazione, che avviene tramite le tusu, o trances. Lo spirito rimane col suo ospite per tutta la vita, e si rivela piuttosto severo: non tollera di essere rinnegato2.
Note:
1) Kubota, Yoko, “Manuale della lingua giapponese classica”, 1987-88.
2) Per l’ esperienza mistica avvenuta ad Aoki Aiko, si veda Honda Katsuichi, “Ainu Minzoku”, 1993.
Testo tratto dalla tesi di laurea di: Valentina Vignola.
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