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Ainu no Ishibumi
In questo romanzo storico-autobiografico sono frequenti le notizie di anziani donne o uomini passati a miglior vita, che portano via con sè un pezzo della “vera” cultura Ainu. Per quanto possa essere doloroso affermarlo, parlare del popolo Ainu equivale a parlare di un popolo che si estingue.
Inizialmente l’autore non aveva intenzione di rendere il suo elaborato una sorta di autobiografia, ma così è stato. Non si era ripromesso di trascrivere dolori e delusioni affrontati nel corso della sua vita, tuttavia ha finito con il parlarne, secondo quella convinzione che “mettere per iscritto qualcosa contribuisce a liberarci dal suo peso”. Tuttavia, sarebbe scorretto intendere questo libro come un semplice attacco contro i Wajin.
Il titolo, “Ainu no Ishibumi”, può essere letteralmente tradotto come “Monumento degli Ainu”. E’ soprattutto un monumento alla cultura Ainu, alle sue tradizioni orali più antiche, non contaminate dalla modernizzazione. E’ il racconto di una singola famiglia Ainu del villaggio di Nibutani; ma allo stesso tempo, è il racconto di un’intera generazione che cresce vedendo morire la propria società assieme ai suoi membri più anziani.
Lo stile è schietto, privo di orpelli decorativi, e nonostante tutto riesce benissimo a trasmettere i sentimenti dell’autore, e a far commuovere il lettore.
Da un rametto di lampone che pende, amuleto contro il freddo, sull’atrio dell’abitazione di cemento in stile occidentale di un’ anziana del suo villaggio, chiaro paradosso tra antico e moderno, l’autore viene riportato indietro con la memoria alla sua gioventù.
Nato nel 1925, quando ormai il cosiddetto “etnocidio” dei Wajin era già stato messo in atto da più di mezzo secolo, Kayano si troverà a dare una voce agli Ainu di prima generazione, portatori “sani” di una cultura che andava estinguendosi.
Dopo una trascrizione fedele del “Diario di Saru” del 1858, ad opera di un esploratore Wajin, che riporta i soprusi subiti dai suoi nonni all’epoca della loro adolescenza, comincia il resoconto sul passato dell’autore.
Sin dalle prime pagine della sua storia, possiamo renderci conto di quale stato di povertà gravasse sul popolo Ainu all’epoca: famiglie numerosissime costrette a vivere in meno di dieci metri quadrati; bambini appena dodicenni già impiegati (lo stesso autore abbandonò le scuole dopo aver ottenuto quella che adesso corrisponderebbe alla licenza media) sotto condizioni di lavoro pesantissime, in cui le morti per tubercolosi sono all’ordine del giorno. Eppure in tutta questa miseria c’è un barlume di luce. La madre dell’autore, seppur vivendo in una casa minuscola, è sempre pronta ad offrire ospitalità ai viandanti; il padre, che ha il vizio di bere, si prodiga a ringraziare gli Dei ogni qualvolta abbia avuto una buona pesca od un’occasione propizia; la nonna, sin dalla tenera età istruisce il suo nipotino narrandogli yukar, unwepeker, e tutte le storie che ella ha ascoltato da bambina.
Perlomeno l’autore non ha dovuto fare i conti con i soprusi della discriminazione, come invece è accaduto a molti dei suoi coetanei in altre zone dello Hokkaidō: nel villaggio di Nibutani dove è nato e cresciuto, praticamente il 100% degli abitanti era di sangue Ainu.
La penetrazione dei Wajin, tuttavia, colpirà in altro modo: Kayano ci racconta di come dagli anni ’50 sempre più ricercatori Shisham si fanno ospitare da suo padre con la scusa di studiare i costumi Ainu, ed ogni volta portandosi via un antico cimelio di famiglia. I Wajin, che avevano cercato di cancellare la cultura Ainu, ora andavano in cerca di loro utensili autentici. Ma non solo: lo studio si spinse a livelli quasi surreali; gli Ainu venivano schedati come galeotti, diversi campioni di sangue venivano loro prelevati. Tutto a sedicenti fini scientifici.
Ed è questa ulteriore umiliazione che il suo popolo si trova a dover sopportare che spinge finalmente lo scrittore, dopo un lungo periodo di disconoscimento della propria etnia, a farsi portavoce della cultura Ainu.
Decide così di mettere da parte sempre più radicalmente il lavoro di caposquadra, che tanto sognava di intraprendere da bambino, per dedicarsi totalmente ad intagliare il legno, aprendo un negozio tutto suo. Comincia altresì, a collezionare utensili antichi, scambiandoli con somme di denaro pari al loro valore, diversamente da quanto fatto dai Wajin.
Tutto ciò è solo un contorno al “disastro” che va man mano compiendosi: i Wajin (ma non soltanto) cominciano a reclutare Ainu per “dar spettacolo”: ed è da questo momento, dalla fine degli anni ’50, che la loro cultura inizia a diventare attrazione per i turisti… E sfortunatamente, anche l’autore si vede costretto a partecipare a queste lugubri pantomime, dove l’iyomante, un rito che va praticato solo una volta all’inizio del nuovo anno, viene recitato ogni giorno. Ciò che lo sorprende di più, tuttavia, sono gli ingenui commenti delle scolaresche e anche di alcuni turisti Wajin un po’ più attempati (commenti come: “Sapete parlare il giapponese!” e “Vi vestite come noi!”).
Sempre più convinto di dover restituire il giusto prestigio al suo popolo, lo scrittore inizialmente collabora alle registrazioni di lingua Ainu di Chiri Mashiho 1, che lo prega di “trasmettere qualsiasi cosa faccia parte dei costumi degli Ainu del passato, e non vergognarsi di riportare persino le frivolezze”2, per poi divenire assistente ed ottimo amico di Kindaichi Kyōsuke.
Nel frattempo, mentre è così intento nel salvaguardare la cultura e la lingua Ainu, irrimediabile scorre il tempo, finché giunge l’ora di “rimandare” alla terra dei kamui gli anziani del suo villaggio. Ecco che si perdono certi vocaboli, ecco che scompaiono antiche storie. Fortunatamente, molti degli ekashi e delle huchi di Biratori hanno fatto in tempo a tramandare il loro bagaglio culturale a Kayano affinché lo mettesse per iscritto, ma ci sono delle cose che non possono essere trasmesse così facilmente. E qui si arriva al passo più struggente del libro: il funerale del padre di Kayano.
Terribile, e più emblematico di qualunque altra espressione, è il lamento del consuocero, che celebrerà il suo rito funebre: “Sei stato fortunato a morire per primo. Adesso chi sarà a ‘rimandare indietro’ me?”.3
Il rito funebre, attraverso cui si “rimanda indietro” alla terra dei kamui il defunto, prevede la recitazione di preghiere e una vasta serie di accorgimenti atti a scongiurare che l’anima del morto torni ad infestare le sue dimore di un tempo. Ognuno è conscio di quanto sia importante, all’interno di una società, un rituale di questo genere; da un rammarico simile, si può capire quanto esattamente i Wajin abbiano danneggiato la cultura Ainu.
Il romanzo continua con la citazione di un’orazione di Kayano composta in lingua Ainu, secondo i dettami della tradizione, per il funerale di un’anziana collaboratrice. In lingua Ainu sarà, ancora una volta, il discorso che lo scrittore pronuncerà in occasione del premio Kikuchikan, uno dei più prestigiosi in Giappone per la Letteratura, vinto nel 1975.
Per concludere, Kayano ci parla della sua battaglia per l’apertura del Museo Antropologico di Nibutani, e del suo successivo allestimento. Un epilogo, presente esclusivamente nell’ultima ristampa della versione in inglese, ci mette al corrente della campagna elettorale dell’autore, iscritto nella lista del Partito Social-Democratico. Conquisterà il seggio alla Dieta del governo giapponese nel 1995: e pensare che, a detta di Kayano, la politica non è mai stata nei suoi interessi.
Note:
1) Per maggiori informazioni su questo personaggio, si rimanda al Capitolo 1, paragrafo 1.8.
2) Cit. Kayano, Shigeru, “Ainu no Ishibumi”, 1987.
3) Vedi sopra.
Testo tratto dalla tesi di laurea di: Valentina Vignola.
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