Giapponesi e Barbari del Nord
Per quel che riguarda lo sviluppo di una coscienza Ainu nella cultura nipponica, è importante ricordare che i primi studi ponderati, effettuati da ricercatori giapponesi, siano da collocare agli albori dell’era Taishō (大正時代, 1912-1926). Tuttavia, le razzie condotte dai Giapponesi sul popolo Ainu ed i territori da esso occupati erano già databili all’epoca Meiji (明治時代, 1868-1912). E’ innanzitutto il bisogno comprensibilmente sempre maggiore di materie prime e territori vergini, naturalmente localizzati nelle incontaminate isole del Nord, a spingere i Giapponesi a riallacciare e allo stesso tempo, stravolgere i contatti con i loro vicini settentrionali.
Chiunque studi la civiltà giapponese sarà sicuramente a conoscenza dell’epiteto “Barbari del Sud” (dal Giapponese: “Nanban”, 南蛮), indirizzato ai primi visitatori, olandesi e portoghesi, dell’arcipelago. La domanda sorge spontanea: perché Barbari “del Sud”? Il termine è un indubbio segnale di precedenti contatti , nella storia nipponica, con un’altra tipologia di Barbari. I quali, per forza di cose, debbono provenire dalla direzione opposta, il “Nord”: gli Ainu.
Documenti giapponesi di ogni periodo registrano effettivi scambi commerciali con le popolazioni settentrionali; a cui si aggiungono gli immancabili dissidi tra i due diversi popoli, gli Shisham (Giapponesi) e gli Ainu, tutti culminati in terribili disfatte di questi ultimi per mano dei primi1.
La causa principale delle sconfitte è imputabile all’evidente inferiorità degli Ainu sul piano tecnologico, alla loro incapacità di “tenersi al passo con i tempi” ed il loro desiderio di “restare ancorati alle proprie primitive tradizioni”. Sarà tutto ciò ad influenzare negativamente il giudizio dell’oligarchia Meiji, su questo popolo pacifico ed affascinante.
Diversamente dagli abitanti delle isole Ryūkyū, anch’essi una minoranza etnica all’interno di quell’immenso melting pot quale è il Giappone, gli Ainu non avevano mai intrattenuto rapporti commerciali con altre potenze asiatiche; non potevano vantarsi di possedere una lunga linea di rispettabili dinastie monarchiche; né sembravano particolarmente versati (quanto bramosi di diventarlo) nell’idioma di Tōkyō. Questo, unito ai loro costumi “antiquati” e all’assenza di un codice linguistico scritto, contribuì a ribadire il concetto, cristallizzatosi nel tempo, che gli Ainu non fossero altro che un popolo barbaro, e che fosse di conseguenza un dovere morale delle civili ed alfabetizzate popolazioni confinanti aiutarli a superare la loro barbara condizione, tramite una severa campagna di assimilazione socio-culturale.
La docilità con cui gli Ainu si sono prestati ad ubbidire a quest’assurda pretesa, giudicandola (o costretti a giudicarla?) positiva per lo stato e per loro stessi, ha nociuto in maniera inesorabile non soltanto alla durata media delle loro vite (si calcola che, sul finire del XIX secolo, la popolazione Ainu sia stata dimezzata dalla tubercolosi e da altre malattie infettive a causa dei poco azzeccati materiali usati per la costruzione di nuove dimore “più moderne”, gentilmente concesse loro dal governo giapponese2; e soprattutto dai poco azzeccati cambi di residenza3), ma soprattutto al loro modus vivendi, e di conseguenza, alla loro cultura.
Note:
1) Le più importanti a tutt’oggi sono la Rivolta di Koshamain del 1456, la Guerra di Shakushain del 1669, e un ultimo disordine, la Battaglia di Menashi-Kunashir del 1789. Tutte e tre vengono ricordate come sommosse degli Ainu atte a scongiurare, disgraziatamente senza successo, gli abusi giapponesi in Hokkaidō.
2) Il governo giapponese pensò di sostituire le abitazioni tradizionali Ainu in pietra e paglia, “chise”, con costruzioni in legno. Mossa piuttosto ingenua considerando che in Hokkaidō la temperatura invernale può toccare i -20° C.
3) Diverse famiglie Ainu vennero fatte sloggiare da aree fertili, poi adibite a pascoli imperiali, e dirette verso zone brulle e montagnose, dove in molti finirono col morire di freddo o di stenti.
Testo tratto dalla tesi di laurea di: Valentina Vignola. |