13 Assassini (Jusannin no Shikaku)
Un sanguinoso omaggio alla gloria dei capolavori samurai
La crescita di Takashi Miike è completa: questo regista una volta famoso per i filmetti shockanti, che sfornava come salsicce ed erano amati dai fan del cinema estremo asiatico, è ora autore riconosciuto e di comprovato successo, con il suo nuovo pretenzioso film sui samurai "Jusannin no Shikaku (13 Assassins)" presentato in gara al Festival del cinema di Venezia.
Il vecchio Miike, che distruggeva le formule, mentre indulgeva nella parte più selvaggia e malefic della sua immaginazione, è ancora ben vivo in questa sua rielaborazione del film omonimo di Eiichi Kudo del 1963. Ma è presente anche un Miike più maturo, più conscio delle proprie eredità. Non più soddisfatto dall’essere il ragazzino più figo della classe, ora si confronta con i grandi dell’Età dell’Oro del genere samurai – non solo Kudo, ma il più grande di tutti Akira Kurosawa, specialmente del suo epico "Shichinin no Samurai” (Sette Samurai) del 1954. Questa ambizione oltremisura, presente in ogni inquadratura, non finisce con l’essere una parodia autoindulgente del genere come "Sukiyaki Western Django" il western orientale che Miike ha diretto nel 2007, ma ha invece portato la storia (pochi virtuosi contro molti cattivi, un genere perenne) ai limiti esterni del proprio formidabile talento ed energia. C’è abbondanza di azione splatter ultra-carica, con tocchi di commedia nera, nel genere familiare a Miike. Ma nei 50 minuti della battaglia finale, gli eroi cambiano da arroganti, quasi sovrumani guerrieri, che eliminano nemici con qualsiasi cosa da enormi esplosioni a bastoni e pietre, a uomini feriti, che combattono disperati per le loro vite contro un numero schiacciante di avversari, filmato in tonalità scure e granulose, che fanno presagire la rovina finale. C’è un pathos nella loro lotta che nuovo per Miike, ma che è spesso presente nelle grandi epiche samurai che cerca di eguagliare.
"Jusannin no Shikaku" non tocca i sentimenti con la profondità di "Shichinin no Samurai" commovente per la perdita di vite umane, e chiaro sui tragici limiti dell’eroismo, ma Miike mostra una nuova via per un vecchio genere che ancora fatica a reinventarsi. Piuttosto che cercare di abbagliare con effetti speciali come tanti dei suoi contemporanei (vedi ad esempio il disastroso Kazuaki Kiriya e “Goemon” ad esempio), Miike usa i pixel, assieme a sudore e intelligenza vecchio stile, per consegnare azione a tutta forza, dura e pura. Più che ai fan del genere ormai di mezza età, il suo target è la giovane generazione per i quali le classiche scene di duello tra samurai, per come erano esteticamente filmate, spesso sembrano spettacoli di danza. La storia segue la trama del film originale, che è liberamente ispirata ad un fatto vero. Il capriccioso e crudele Lord Naritsugu (Goro Inagaki) semina morte e distruzione tra i suoi sudditi quando il suo comandante onorario si taglia lo stomaco per protesta. Lord Doi (Mikijiro Hira), membro del Consiglio degli Anziani dello shogun, decide che Naritsugu deve essere fermato prima che avvenga la sua entrata nel consiglio – e potenzialmente che diventi shogun. Doi incarica Shimada Shinzaemon (Koji Yakusho), un coraggioso e capace metsuke (una specie di agente segreto dell’era feudale) di uccidere Naritsugu. Dopo aver visto una vittima del suo sadismo (una donna senza gambe, braccia e lingua) Shinzaemon ha bisogno di poco per essere convinto. Raduna un gruppo di undici assassini, che include il finto senior metsuke Kuranaga (Hiroki Matsukata), il ronin (samurai senza padrone) Hirayama (Tsuyoshi Ihara) e il proprio dissoluto ma impavido nipote Shinrouko (Takayuki Yamada). Assieme complottano per sorprendere Naritsugu in un villaggio durante il suo viaggio annuale da Edo (antica Tokyo) al proprio dominio. Con l’aiuto della gente del luogo, tra cui il selvaggio montanaro Koyata (Yusuke Iseya), che prova il proprio valore come guida e guerrieri, preparano attentamente l’agguato, ma vengono a sapere che, invece del piccolo battaglione che si aspettavano, Naritsugu e il suo arguto luogotenente Hanbei (Masachika Ichimura) hanno con sé 300 uomini. Sapendo di andare incontro a morte quasi sicura, i 13 assassini (incluso Koyata) decidono di combattere ugualmente per orgoglio – e perché è ciò che nella vita li diverte.
Nonostante il lungo cast, le star del film si distinguono dalla massa. Yakusho, che interpreta Shinzaemon, porta non solo il proprio marchio di fabbrica di buon ragazzo, ma anche senso dell’umorismo gotico e rabbia dura. Insomma diventa l’eroe ideale di Miike. Iseya è eccellente nell’interpretare Koyata, che combatte armato di fegato, istinto e divertito disprezzo per le pretese dei samurai. La sorpresa viene da Inagaki, il cattivo fino all’osso Naritsugu. Membro del mega-gruppo pop SMAP, Inagaki riesce a rendere il personaggio non solo strisciante e sogghignante, ma gli dona carisma e forza freddi e perversi.
Potevano ridurre i 50 minuti di spargimento di sangue a 40 o addirittura 30? Sì e sì, ma allora I Tredici Assassini non sarebbe stato un film di Miike, cioè intrattenimento strapieno di eccessi. Pensate che i film d’azione giapponesi siano diventato carini e flaccidi? Che non possano tenere il paragone con i capolavori del glorioso passato: Miike potrà non cambiare la vostra opinione, ma di certo non perché non ci stia provando.
Di Mark Schilling
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