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Il Giappone, si sa, è la terra dove tutto viene riprodotto con la massima cura e con tecnologie superiori che mirano alla perfezione. Migliorare il prodotto occidentale è prerogativa essenziale nell’ambito tecnologico giapponese: non già creare qualcosa di nuovo, ma modellare l’oggetto preesistente, sì da renderlo impeccabile in ogni minimo dettaglio, curare minuziosamente anche le più piccole imperfezioni e rendere di qualità superlativa il prodotto finale offerto alle masse. Questo Paese così contraddittorio, dove tradizione e modernità convivono fianco a fianco, ha applicato tale filosofia anche in campo musicale. Pur con una serie di varianti e peculiarità, che in alcuni casi hanno dato vita a bizzarri e stravaganti ensamble assolutamente originali, se non precursori di espressioni che saranno comprese a pieno solo anni più tardi (vedi l’industrial, il noise o la power electronic), le rock band giapponesi da sempre sono andate a scuola dai grandi maestri europei (molto meno influenti, in tal senso, sono stati i mai troppo amati americani), ma la lezione è stato rielaborata e portata a un livello tecnico e qualitativo talmente evoluto da renderlo ricco di sfumature ed eccellente sotto ogni punto di vista. Qui non si tratta di omaggiare proposizioni di piccola entità, se non addirittura mediocri (ne citeremo solamente un paio, la cui importanza storica nell’ambito
del microcosmo nipponico non può però essere negata), ma formazioni di alto lignaggio, alcuni autentici colossi della variegata
scena locale (e parliamo sia di successo artistico che commerciale), da non avere neppure una particolare motivazione nel cercare il successo in Occidente, essendo il mercato autoctono più che sufficiente a incoronarne i membri come autentiche rockstar. L’arcipelago giapponese era già stato fucina di grandi talenti negli anni 70, con titani quali Creation, Murasaki, Flied Egg, Cosmos Factory, Gedo, Condition Green e Flower Travellin’ Band, tutti più o meno legati all’hard rock progressivo, mentre già sul finire del decennio Bow Wow, Mariner, Nokemono, Heavy Metal Army e Silver Stars avevano cominciato ad affilare gli artigli, avvicinandosi a un suono più granitico e proclive alle esuberanti scorribande metalliche a noi tanto care. Al bando, insomma, la tentazione di considerare la scena del Sol Levante come qualcosa di naïf o irrimediabilmente minore. Tale erronea credenza, purtroppo, complice certa stampa, si diffuse durante gli 80, il periodo che stiamo prendendo in esame, anni in cui il “nostro” pubblico più attento scoprì invece che i giapponesi non solo erano inguaribili consumatori di materia rock, al punto da portare al successo anche formazioni occidentali che in casa stentavano a riempire un pub (su questo stesso numero
è il caso dei Praying Mantis), ma che da quelle parti si suonava e cantava un heavy metal capace di far venire la pelle d’oca.
Purtroppo la differenza non la fece la musica, quasi sempre di standard elevato, ma la sua scarsa reperibilità, perché molti di questi album non furono inizialmente licenziati in Europa e, come ogni appassionato collezionista può confermare, nell’era pre-Internet procacciarsi dischi di importazione giapponese, con le caratteristiche “obi” (le fascette adornate da incomprensibili ideogrammi) era un’impresa improba e comunque assai costosa. A fronte di una proposta sempre vivace ed energica, l’originalità stilistica fu forse l’unica cosa che non si poteva pretendere da questi moderni samurai, armati di chitarre non meno mortifere di una katana. Altro frequente punto debole (evidenziato maliziosamente da Kerrang! e soci, che però, affamati
di novità da proporre settimanalmente al proprio sterminato pubblico, si gettarono avidamente sulla scena, con tanto di speciali
e copertine) sono le parti vocali, eseguite con un timbro sovente lamentoso e quasi sempre in lingua madre, con l’inclusione di qualche parola di pessimo inglese. Ma l’elevatissimo spessore tecnico, quasi mai però a discapito del necessario cuore, è all’ordine del giorno.
Curiosamente la prima scena nippo-rock davvero originale sarà quella molto più recente del Visual Kei, sorta di melange tra un metal sovente sinfonico e lievemente modernista (ma attenzione, spesso una band appartenente a tale filone può passare da un pezzo power metal a uno goth a uno punk-pop nel corso di un solo album) e la tradizione visiva di anime e manga (i celebri cartoni giapponesi), con i glorificati X-Japan (in patria solo X, vedi l’approfondimento LINK ) a guidarne metaforicamente il variegato corteo. Ovviamente dobbiamo ribadire, come sempre, che questo articolo non rappresenta un profilo della sterminata,
ricchissima e (lo osiamo dire!) interessantissima scena rock giapponese, che oggi è al centro di un forte, rinnovato interesse da parte del pubblico occidentale. Troppo vasta, articolata e fertile in ogni genere e sottogenere immaginabile (ricordate che, con il termine J-pop, in patria si descrive sia una band di violentissima techno che una formazione di nu metal, capaci però di entrare entrambe in classifica e di essere apprezzate dal medesimo pubblico) per essere circoscritta e addomesticati.
Indossate un comodo kimono , sorseggiate un gustoso sake e preparatevi a entrare in questo mondo meraviglioso.
Articolo tratto dalla rivista Classix Metal N. 9 di Ottobre 2010, pubblicato da Coniglio Editore.
A cura di: FRANCESCO “Fuzz” PASCOLETTI
Parole di: GIOVANNI LORIA
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Tutte le recensioni nella nostra “Enciclopedia del J-Rock e J-Pop” scritte in colore viola sono state gentilmente messe a disposizione dalla Coniglio Editore, e sono frutto del lavoro degli autori sopra menzionati.
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