Aspetti tecnici, strutturali e di linguaggio
Monofonia ed eterofonia, assenza di armonia e contrappunto
Come è noto una componente fondamentale della musica
occidentale è costituita dall'armonia, cioè
dall'uso deliberato e sistematico di suoni contemporanei di
altezza diversa secondo una ben precisa sintassi che assegna
ai diversi intervalli e accordi funzioni strutturali determinate
all'interno del brano. L'armonia è stata oggetto di studio teorico a
partire dal XV secolo (Johannes Tinctoris e la polifonia fiamminga) ed
è stata successivamente sviluppata nella musica barocca e classica
fino a diventare un elemento portante della struttura generale dei
brani, secondo quell'insieme di convenzioni e regole che costituiscono
il linguaggio della tonalità.
Anche quando, dalla fine del XIX secolo, la tonalità è stata messa in
dubbio o rifiutata, ciò non è avvenuto attraverso una rinuncia
all'armonia, ma solo tramite un cambiamento delle convenzioni che ne
regolano l'uso (atonalità, dodecafonia, ecc.).
Al contrario la musica tradizionale giapponese manca
completamente di dimensione armonica ed è basata
principalmente sulla monodia, cioè la sua struttura è
legata alla successione orizzontale (temporale) delle note; in
generale ciò non significa che in essa non si verifichi mai l'incontro
di note simultanee di altezza differente, ma questo fatto non
costituisce un elemento importante del linguaggio o della struttura
del brano nel senso sopra descritto.
Un fenomeno molto frequente nella musica giapponese è costituito
dall'eterofonia, che si verifica quando strumenti
diversi (o strumenti e voci) eseguono la stessa melodia; in tali casi
solitamente i diversi strumenti introducono nella comune linea
melodica differenze più o meno grandi di tempo (anticipi o ritardi) o
di intonazione o abbellimenti e diminuzioni (spesso legate alle
diverse possibilità tecniche dello strumento). In questo modo, anche
se in linea generale tutti gli strumenti eseguono la stessa melodia,
si verificano frequentemente incontri di note diverse e quindi il
risultato viene descritto con il termine di
eterofonia, non potendosi parlare di unisono in senso
proprio ma neppure di vera polifonia né di armonia (in quanto manca la
ricerca deliberata di accordi predeterminati).
Tra gli altri esempi di sovrapposizione di suoni di altezza diversa
che si possono incontrare nella musica tradizionale giapponese
possiamo citare:
-
gli accordi dello
shô
che costituiscono il sottofondo armonico del
gagaku;
-
le figurazioni ripetute simili ad un ostinato dello strumento di
accompagnamento (spesso lo
shamisen)
in molti brani di musica popolare.
In entrambi i casi siamo però molto lontani dal concetto di armonia
occidentale, in quanto manca completamente la funzione dinamica e
strutturale che la successione di accordi ha nella musica europea,
attraverso l'alternanza di tensione (dissonanza) e rilasciamento
(risoluzione della dissonanza). Al contrario gli esempi sopra citati
(e in modo particolare gli accordi dello
shô nel
gagaku)
tendono a creare un sottofondo statico, che non segue la logica
dell'evoluzione temporale della melodia ma vi sovrappone uno strato
sonoro quasi cristallizzato che sembra avere soprattutto una funzione
di arricchimento timbrico. Analogamente sembrano mancare completamente
di finalità armoniche le esecuzioni in canone delle melodie del
gagaku
che si incontrano a volte nei preludi di
bugaku.
Nella musica giapponese è anche rara la
polifonia, cioè l'esecuzione simultanea di due o più melodie
differenti. Un genere che almeno parzialmente costituisce eccezione da
questo punto di vista è il
sôkyoku,
nella cui evoluzione storica sembra di poter scorgere uno sviluppo
che, a partire dalle composizioni essenzialmente monodiche di
Yatsuhashi Kengyô,
arriva a forme di polifonia sempre più complesse
(sôkyoku
in stile
kaede,
kyôryû tegotomono,
rinascimento del sôkyoku e
Meiji shinkyoku);
esemplare in questo senso è il brano
Godanginuta di
Mitsuzaki Kengyô
(vedi Esempio musicale 18).
Anche in questo caso si tratta però di una polifonia che, diversamente
dalla polifonia occidentale, non si basa sull'armonia (è una
"polifonia di tipo giapponese", secondo le parole di
Hoshi Akira).
Forse collegata alla mancanza di armonia e polifonia è la
mancanza di strumenti bassi nella musica giapponese,
la quale si svolge tutta su un registro che ha un'estensione simile a
quella della voce umana. è da notare a questo proposito che alcuni
strumenti di registro basso (come lo
u e lo
hichiriki
basso) erano stati importati ed utilizzati in Giappone durante il
periodo Nara,
ma sono poi rapidamente caduti in disuso.
Naturalmente tutte queste considerazioni si applicano alla musica
composta prima dell'incontro con la musica occidentale e del suo
assorbimento; infatti a partire dagli anni '20 del XX secolo non solo
il linguaggio armonico europeo comuncia ad essere utilizzato nella
musica giapponese, dando origine ad una musica che non è più solamente
giapponese ma che non può neppure essere considerata semplice
imitazione della musica occidentale, ma vengono anche creati nuovi
strumenti musicali (come il
jûshichigen)
per far fronte alle nuove necessità tecniche che tale evoluzione
comportava.
Utilizzo di piccoli organici strumentali
La musica tradizionale giapponese utilizza esclusivamente
piccoli gruppi strumentali. Utilizzando la terminologia
della musica occidentale si potrebbe dire che la musica giapponese
ha un indirizzo prettamente cameristico: nella maggior parte dei casi essa
viene eseguita da un cantante (più raramente da piccoli cori che cantano
all'unisono) accompagnati da uno o pochi strumenti musicali.
Come
esempi tipici possiamo citare:
-
il repertorio estremamente vasto della musica vocale accompagnata da
shamisen,
che comprende sia generi destinati ad un'esecuzione "da camera" (o
"da salotto", come si dice in giapponese), sia generi legati al teatro;
-
la musica del teatro
kabuki,
che spesso rientra nella categoria precedente
(tayûshamisen)
e in altri casi prevede invece un piccolo gruppo strumentale (uno o due
shamisen,
flauto e percussioni);
-
la musica del
teatro nô,
il cui organico costituisce l'esempio più classico di
hayashi;
-
i brani vocali del
sôkyoku,
in cui una poesia viene cantata con l'accompagnamento del solo
koto,
oppure da
koto e
shamisen
(sôkyoku di
scuola Ikuta),
oppure da
koto,
shamisen e
shakuhachi
(sankyoku).
L'organico che più ricorda un'orchestra occidentale è forse quello del
gagaku
(e in particolare del
kangen),
che comprende strumenti a fiato, a corda e percussioni (16 strumentisti in
tutto). Anche in questo caso però l'analogia è del tutto superficiale,
in quanto:
-
nell'orchestra occidentale archi e fiati costituiscono due blocchi sonori
distinti che si contrappongono, avvicendandosi o integrandosi nella
conduzione della melodia; invece nel
gagaku
la melodia è eseguita solamente dai fiati; gli strumenti a corda
hanno un ruolo solamente accessorio e non esiste contrapposizione o
avvicendamento (tutti gli strumenti suonano per tutta la durata del
brano);
-
nel
gagaku
manca completamente la struttura verticale dell'orchestra occidentale
(divisione tra strumenti di registro acuto e basso) responsabile della
produzione dell'aspetto armonico della musica;
perciò anche questo caso rientra in fondo in una concezione
cameristica della musica.
Forma e struttura
In generale la musica occidentale è costruita in modo
logico, secondo una struttura che combina in modo razionale e
ordinato i costituenti più piccoli (i motivi) in elementi
sempre più grandi (frasi, movimenti e brani). In
alcune composizioni questa logica è perseguita con un rigore
geometrico (vedi ad esempio l'Arte della fuga di J. S. Bach),
ma anche in casi meno estremi è solitamente riconoscibile un disegno
ben definito che fa da struttura portante al brano (si pensi
all'importanza che la forma sonata ha nella musica del
Classicismo e del Romanticismo).
Si può dire invece che gran parte della musica tradizionale
giapponese sia priva di una tale organizzazione formale. In parte ciò
è legato alla già citata preponderanza dell'elemento vocale e
narrativo: in un brano di
heikyoku, di
nô o di
jôruri
la musica funge da commento e da sottolineatura al testo
cantato/declamato e i brani si organizzano secondo una successione di
momenti che sono dettati dallo svolgimento della narrazione o della
trama teatrale. Si può forse dire che tale successione costituisca una
sorta di struttura del brano, ma si tratta di una struttura
fluida e non preordinata, che obbedisce a criteri
emozionali piuttosto che logici. Ad esempio è raro che in un
brano di musica giapponese si possa riscontrare una cellula tematica
che abbia una funzione paragonabile ad un motivo musicale in senso
occidentale.
Questa tendenza generale ha comunque alcune importanti eccezioni:
-
all'interno del
sôkyoku
i
tegotomono
e soprattutto i
danmono
sono due generi caratterizzati da una struttura ben definita; probabilmente
si tratta dei generi di musica tradizionale giapponese che più si avvicinano
al concetto di "musica assoluta" occidentale;
-
in alcuni casi anche i brani di
gagaku
hanno una struttura generale riconoscibile (vedi quanto detto a proposito dei
moduli ritmici del
kangen
e della struttura del brano
Etenraku).
Un concetto fondamentale nella descrizione della struttura dei brani
di musica tradizionale giapponese è quello riassunto dalla terna
jo - ha - kyû. Originariamente questi termini
descrivevano la successione dei brani in una rappresentazione di
bugaku,
in cui jo rapprensenta l'introduzione in tempo libero,
ha la parte principale del brano su ritmo regolare e kyû
la conclusione su tempo accelerato (per i dettagli vedi il paragrafo
Il bugaku).
Una successione simile caratterizza però anche i
brani di
kangen,
che spesso hanno un'introduzione in tempo libero e si concludono con un tempo
progressivamente accelerato, ed in seguito è stata assunta come principio
estetico applicabile a tutti i generi musicali.
La sistematizzazione del concetto di jo - ha - kyû
si deve soprattutto a
Zeami,
che nei suoi trattati teorici (soprattutto nel Fûshikaden) ne fa
uno dei principi informatori del
teatro nô
a tutti i livelli, dalla successione dei momenti in una scena, alla successione
delle scene in un dramma, alla successione dei 5 drammi che tradizionalmente
costituivano una rappresentazione di
nô.
Zeami
anzi si spinge più in là e sembra attribuire al concetto una portata
universale: così spiega che una successione jo - ha - kyû esiste
nella vita di ogni uomo (infanzia - maturità - vecchiaia), nello svolgimento
di un compito assegnato (preparazione - svolgimento - conclusione), nei cicli
naturali della giornata (mattino - meriggio - sera) e dell'anno (primavera -
estate - autunno). In questo senso l'opera d'arte diventa, in qualche modo
misterioso eppure tangibile, uno specchio di ritmi e armonie cosmiche.
Si può quindi dire che i termini jo - ha - kyû costituiscano,
più che una prescrizione formale in senso stretto, l'indicazione di una
successione emozionale che può applicarsi a diverse
forme di rappresentazione musicale e teatrale e che può di volta in volta
essere resa con mezzi tecnici differenti (accelerazione dei tempi,
variazioni dei ritmi delle percussioni, concitazione ed enfasi della
declamazione) senza di per sé coincidere con nessuno di essi. Si tratta
quindi di un ambito molto diverso da quello indicato ad esempio dai
termini esposizione - sviluppo - ripresa della forma sonata
occidentale, che indicano invece una successione di elementi formali
ben definiti.
Assenza di contrasto e staticità
Molto spesso la musica occidentale è basata sul
contrasto: contrasto di intensità sonora (forte - piano) di
velocità e ritmo (allegro - adagio), di timbri (archi - fiati) e di
materiale sonoro (soggetto - controsoggetto). Al paragone la musica
giapponese ha un andamento statico: ciò non significa
che all'interno dei brani non si verifichino cambiamenti, ma
solitamente essi sono più sfumati e progressivi, meno marcati. Per
questo motivo un orecchio occidentale abituato alle forti emozioni
espresse da una sinfonia o da un'opera lirica potrebbe trovare la
musica giapponese eccessivamente monotona e noiosa.
In realtà non è vero che in generale la musica giapponese non
sia veicolo di sentimenti intensi ed emozioni forti: molti brani di
teatro nô,
di
kabuki
o di
jôruri
presentano vicende dalle tinte emotive altrettanto intense (sia nel tragico
che nel comico) dell'opera lirica occidentale, e considerazioni analoghe
si possono fare per le narrazioni dello
heikyoku
o per i poemi che sono la base di molti brani di
sôkyoku e
sankyoku.
In molti casi fa parte però della sensibilità giapponese esprimere
queste emozioni con uno stile sobrio ed un
linguaggio trattenuto che a prima vista può sembrare
meno incisivo ma che in realtà può risultare anche più efficace ed
espressivo.
In generale questa attitudine alla sobrietà di espressione e ad
evitare il contrasto verbale può essere fatta risalire agli
ideali confuciani di cortesia e di armonia sociale
che sono profondamente radicati nella mentalità giapponese.
è interessante notare come la dottrina confuciana, importata in Giappone
ancor prima del
periodo Nara,
assegnasse anche alla musica una ben precisa funzione, secondo la
cosiddetta ideologia di "musica e li".
Il termine cinese li 礼 (in giapponese
rei) esprime una delle principali virtù umane secondo il
confucianesimo. Il termine ha una grande ricchezza di sfumature e quindi
è difficilmente traducibile con una sola parola: in generale indica
l'attitudine della persona a rientrare nell'ordine cosmico e sociale,
rispettando ed onorando i propri antenati e superiori, osservando le
regole di convivenza sociale e l'armonia con il prossimo (può quindi
valere, a seconda del contesto: umanità, gentilezza, educazione, armonia,
buone maniere, cortesia, etichetta, cerimoniale, riconoscenza, gratitudine).
Hoshi Akira mette in diretta relazione l'importazione di tale
ideologia con le caratteristiche della musica giapponese (sobrietà,
assenza di forti contrasti e cambiamenti) a partire dall'inizio
dell'VIII secolo (vedi Hoshi Akira,
Nihon ongaku no rekishi to
kanshô [Storia e apprezzamento della musica giapponese],
capitolo 2, paragrafo 5).
Ritmo
Quasi sempre la musica occidentale (perlomeno a partire dalla fine
del XVI secolo) ha una struttura ritmica ben definita, basata su una
successione di cellule ritmiche (battute) che riproducono invariata la
stessa successione di tempi forti (tesi) e deboli (arsi).
Al contrario i diversi generi e brani di musica giapponese possiedono
una varietà molto ampia di strutture ritmiche che
possono a grandi linee essere raggruppati in due categorie:
- brani che hanno una struttura ritmica definita:
rientrano in questa categoria la musica per
shamisen, il
sôkyoku
e gran parte del
gagaku.
I brani di questo tipo sono i più vicini alla musica occidentale, ma spesso
presentano una struttura ritmica più complessa; ad esempio è tipico
della musica vocale accompagnata utilizzare una struttura ritmica differente
per la parte vocale e per la parte strumentale
(ritmo doppio, vedi Esempi musicali
24 e
26);
- brani senza struttura ritmica definita, in cui cioè
il ritmo musicale non segue schemi fissi e divisibili in cellule ripetute.
Esempi tipici in tal senso sono i brani del repertorio classico per
fuke shakuhachi
o alcuni generi di musica popolare, ma occorre notare che anche generi
musicali che solitamente utilizzano un ritmo definito comprendono
spesso passaggi o sezioni senza ritmo definito. Tra questi si possono citare:
i preludi
(netori e
chôshi)
dei brani strumentali di
gagaku,
le intonazioni iniziali dei brani di
saibara e
rôei,
passaggi in stile declamato o quasi parlato in alcuni generi di musica da
teatro
(gidayûbushi e
nô).
Melodia
Forse perché priva di aspetto armonico, la musica giapponese dà una
grande importanza alla melodia ed è solitamente molto
sviluppata sotto questo punto di vista. Ad esempio le parti cantate dei
brani vocali di tipo
utaimono
abbondano di melismi, cioè di passaggi in cui una vocale viene prolungata
e cantata su figurazioni melodiche che comprendono parecchie note.
Una caratteristica specifica delle melodie giapponesi (e di altri
paesi orientali) è il frequente ricorso a variazioni
microtonali. Una tecnica di questo tipo può a prima vista
apparire strana ad un orecchio occidentale, abituato a considerare
come una "stonatura" qualsiasi suono intermedio tra i dodici gradi
della scala cromatica, ma in realtà costituisce un notevole
arricchimento della melodia e delle possibilità espressive della
musica. Tali sottili variazioni di intonazione sono usate non solo nel
canto ma anche nella tecnica esecutiva di diversi strumenti a fiato
(shakuhachi,
hichiriki
e vari tipi di flauti traversi) e a corda (soprattutto
biwa e
koto).
Va comunque ricordato che in generale il temperamento
delle scale musicali utilizzate nella musica giapponese è diverso da quello
occidentale e presenta anche sensibili variazioni da un genere musicale
all'altro; tali differenze di temperamento fanno parte delle particolarità
stilistiche ed espressive dei diversi generi (per una trattazione di questo
punto vedi l'articolo di Koizumi Fumio che costituisce la seconda parte
del volume Musica
giapponese. Storia e teoria).
Sensibilità timbrica
In generale la musica tradizionale giapponese dimostra una
acuta sensibilità timbrica. Tra gli esempi in questo
senso si possono citare:
-
la grande varietà di strumenti a percussione (ad esempio i numerosi tipi di
taiko o di
idiofoni di legno)
e di tecniche per suonarli;
-
l'esistenza di diversi tipi di
flauti traversi,
che sono tutti simili tra di loro ma presentano sottili differenze timbriche;
-
le notevoli differenze di tecnica di emissione vocale che sono
caratteristiche delle diverse scuole di
jôruri,
nagauta,
ecc.
Anche la pratica
dell'eterofonia
sopra citata in molti casi sembra dettata da un'esigenza di
arricchimento timbrico. Un esempio tipico in tal senso è costituito dal
sankyoku,
un genere di musica vocale accompagnata da tre strumenti
(koto,
shamisen e
shakuhachi)
che eseguono essenzialmente la stessa linea melodica e la cui presenza
è quindi giustificabile solo in base al loro differente colore
strumentale.
Si tratta di un concetto diametralmente opposto a quello del
trio o del quartetto della musica classica occidentale,
in cui i diversi strumenti hanno soprattutto un ruolo
contrappuntistico e armonico, si direbbe quasi la funzione di
materializzare un'altezza sonora astratta a prescindere dal
timbro materiale (non a caso le diverse voci sono spesso timbricamente
omogenee, come nei quartetti d'archi o nella letteratura per organo).
La preminenza data all'aspetto timbrico del suono può essere anche
vista nell'utilizzo di effetti sonori estremi
prossimi al rumore, come ad esempio:
-
l'abbellimento tipico della musica per
koto
chiamato suritsume, in cui si strofina una corda nel senso della sua
lunghezza con il retro degli
tsume
(si paragoni questa pratica alla cura con cui un chitarrista
occidentale cerca di evitare in ogni modo che si percepisca il suono
prodotto dallo sfregamento delle dita contro le corde dello
strumento);
-
la tecnica di suono dello
shakuhachi
chiamata muraiki, che consiste nell'improvvisa emissione di una
quantità di fiato molto superiore a quella necessaria per ottenere una
nota normale e che produce un suono sibilante esplosivo di altezza indefinita
(al contrario un flautista occidentale tende a produrre un suono il più
possibile "pulito", in cui non si avverta il soffio del suonatore);
-
lo hishigi, la nota più acuta del
nôkan,
dal suono penetrante e in cui parimenti si sente fortemente il soffio
del suonatore, e che per queste sue caratteristiche ha una funzione
particolare all'interno dei drammi del
teatro nô;
-
il
sawari del
biwa e dello
shamisen.
Semplicità e complessità
Alcuni dei caratteri della musica tradizionale elencati fino a qui
(assenza di armonia e polifonia, predilezione per la monodia
accompagnata o comunque per organici strumentali limitati) possono
essere riassunti dal termine semplicità;
sicuramente dal punto di vista armonico o contrappuntistico non esiste
nessun brano musicale giapponese che abbia una complessità
confrontabile ad un'opera per organo di Bach o ad una sinfonia di
Brahms.
|
Il monaco Saigyô guarda il monte Fuji
di Hara Zaizen
(periodo Edo). |
|
Fiori e piante
di Kôno Bairei (XIX secolo). |
Due dipinti a inchiostro di china (sumi-e), un genere di
pittura basato su un uso sobrio ed essenziale del pennello, in cui
una raffinata armonia compositiva è raggiunta anche attraverso
ampi spazi bianchi.
Immagini gentilmente fornite dal
Kyôto National Museum |
Si può quindi riconoscere nella musica tradizionale gli
stessi ideali di semplicità, sobrietà ed essenzialità
che sono caratteristici di molte forme d'arte giapponesi, dalla
pittura a inchiostro di china (sumi-e) e calligrafia
all'architettura (costruzione di edifici e giardini) e alla poesia
(tanka).
Come è noto concezioni estetiche di questo tipo sono legate anche
all'influenza che il buddhismo
zen
ha esercitato sulla cultura giapponese a partire dal XII - XIII
secolo, non solo lasciando una forte impronta sulle forme d'arte
esistenti ma anche generandone di nuove, tipicamente giapponesi (come
l'architettura dei giardini rocciosi, la cerimonia del tè e
l'ikebana).
Tutto ciò è sicuramente vero, ma occorre intendersi bene sul
significato dei termini e riconoscere che la "semplicità" di queste
forme artistiche (e in particolare della musica giapponese) non è
dovuta a elementarità, primitività, rozzezza o scarsità di contenuti,
ma è il risultato di un laborioso processo di distillazione e di
separazione dell'essenziale dall'accessorio.
Si tratta dunque di un'arte estremamente raffinata in
cui ogni singolo particolare (l'inclinazione di una pietra o la
curvatura di un ramo, un tratto di pennello o una sfumatura di suono)
trova la propria collocazione esatta attraverso uno studio meticoloso
e una grande padronanza del mezzo tecnico.
La meticolosità degli artisti giapponesi è
proverbiale e la letteratura abbonda di aneddoti al proposito. Ad
esempio John Stevens, nel suo libro sulla vita del maestro di spada e
calligrafo Yamaoka Tesshû (1836 - 1888) (John Stevens, Lo Zen e la
Spada, Luni Editrice, 1999) riporta che il grande calligrafo Iwasa
Ittei, maestro di Tesshû, si era addestrato per tre anni a riprodurre
solamente il carattere
ichi,
usando per l'allenamento circa mezzo litro d'inchiostro ogni giorno.
Esempi di questa cura estrema dei particolari
sono riscontrabili anche in campo musicale:
-
la tecnica esecutiva degli strumenti a corda (e soprattutto del
koto)
comprende una grande varietà di effetti speciali che possono essere in
qualche modo paragonati agli "abbellimenti" (portamenti, appoggiature,
acciaccature, mordenti, trilli, arpeggi, ecc.) della musica
occidentale e che si ottengono tendendo, sfregando o manipolando in vario
modo le corde. Riguardo alla musica per
koto
Hoshi Akira cita 9 differenti "tecniche della mano destra" e 8
"tecniche della mano sinistra", ciascuna delle quali è indicata con
una sua notazione specifica sulle
intavolature
per lo strumento (vedi Hoshi Akira,
Nihon ongaku no rekishi
to kanshô [Storia e apprezzamento della musica giapponese], parte 2,
capitolo 2);
-
la tecnica esecutiva dei vari tipi di flauto traverso
(ryûteki,
komabue,
nôkan,
ecc.) e delloshakuhachi
richiede l'emissione di sottili variazioni di intonazione e di timbro,
ottenute modificando la posizione delle labbra o la pressione del soffio,
ruotando il corpo dello strumento e aprendo parzialmente i fori.
Altri siti
Siti relativi ad alcuni degli argomenti toccati in questa introduzione:
-
sulla pittura a inchiostro di china (sumi-e o suibokuga):
-
sulla calligrafia:
-
sulla poesia:
-
sull'architettura:
-
sui giardini giapponesi:
-
sulla cerimonia del tè (cha no yu o chadô o sadô):
-
sull'ikebana:
|